Iiritano, Massimo, Utopia del tramonto. Identità e crisi della coscienza europea.
Bari, Dedalo, 2004 - Recensione di Rita Fulco - 01/02/2005
29 ottobre 2004. La maggior parte degli europei, italiani compresi, non sono
in alcun modo sollecitati da questa data che, evidentemente, non evoca già
più nulla. Eppure, è il giorno in cui è stata firmata la Costituzione Europea
a Roma, con una celebrazione che ha avuto vasta risonanza su tutti i media,
e che ha segnato, di fatto, il passaggio da un’unione meramente economica
al tentativo di una ratificazione della com-unione politica, culturale, etica,
legislativa, che sembra permeare il sostrato della storia remota e recente
del nostro continente. Il che contraddirebbe, di fatto, la convinzione di
Nietzsche, espressa nel 1885 in uno dei Frammenti postumi – da cui
Iiritano si lascia teoreticamente provocare – secondo la quale “il solo denaro
costringerà l’Europa a stringersi insieme, quando che sia, in un’unica potenza”.
La coscienza europea – lo si deduce anche da questi oblii per nulla sottovalutabili
e nonostante la “silenziosa domanda d’Europa”, che Morin, e con lui Iiritano
(p. 15) riscontrano inespressa nel cuore segreto degli abitanti del nostro
continente – è ancora patrimonio di una élite intellettuale e i dibattiti
sulla sua identità, nonché sulla sua crisi, dovrebbero avere come presupposto
imprescindibile la consapevolezza lucida che la coscienza europea, purtroppo,
non è patrimonio, neppure oggi, di un sentire diffuso e profondo. L’utopia
che Iiritano prova a sottrarre dalle ombre sempre più lunghe del tramonto
che, come in un incantesimo, ha assopito la coscienza di Europa, potrebbe
trovare la sua fecondità proprio nello spezzare tale incantesimo a causa del
quale, assieme a lei, dormono tutti gli abitanti delle sue terre, immemori
della comune origine e del possibile comune destino, ancorché destino di tramonto.
Utopia rammemorante, potrebbe allora essere il suo sostanziale Geschick,
destino e invio, identico e pur sempre singolare, per ciascuno degli assopiti
abitanti di questo “promontorio dell’Asia”– di cui già Kierkegaard rilevava,
come sottolinea Iiritano, il torpore sonnolento (p. 121) – oggi ben altro
dal capo che ha creduto di essere fino al secolo scorso.
Compito sempre più urgente, dato che l’oblio di Europa, implica sia l’oblio
del suo stesso essere-per-il-tramonto, ossia Occidente, sia il tentativo insoddisfacente
di trovare un’identità, affastellando ricordi la cui onnipresenza significa
solo assenza e perdita, come rileva Massimo Cacciari, il cui pensiero guida
Iritano nel suo domandare su Europa. Piuttosto che invischiarsi nelle prodezze,
più o meno riuscite, che rimettono insieme quadri autorappresentativi di un’Europa
che crede di sapersi e riconoscersi nelle molteplici fasi della sua storia
– nella fiducia di poter estrapolare dal passato nitidi ritratti, e ritrovandosi
quasi sempre a dover fare i conti con un’ambiguità sorprendente come quella
della Gioconda – bisognerebbe, piuttosto, far propria questa “utopia di un
resistere, di uno stare interroganti nel luogo del tramonto” (p. 206). Il
che comporta anche la necessità di sopportare il peso di un’ambiguità
che, mondata dalle frange di inquietudine paralizzante che tale termine porta
spesso con sé, si rivela, nella sua nuda verità, come l’autentico luogo della
dif-ferenza, quello zwischen che, lasciando essere l’identità nella
distanza tra sé e sé, può, infine, raccogliere e accogliere
l’altro da sé e di sé. Quali vie seguire, allora, per approdare
a questo luogo di riparo per i naufraghi smarriti che non riconoscono
ancora la loro terra d’origine, e di riparazione per tutte le violenze
e le stragi – e se verrà accolta la Turchia, la nostra comune coscienza dovrà
pur assumersi la responsabilità, oltre che dello sterminio degli ebrei, anche,
ad esempio, del genocidio degli armeni – compiute a causa di quella che potremmo
chiamare non solo xenofobia, ma, metafisicamente, “alterofobia”, paura dell’altro
in quanto altro, portatore di una differenza inassimilabile? Iiritano ne indica
alcune, seguendo le tracce di pensatori del Novecento che hanno segnato l’Europa,
primo tra tutti Derrida, passando per Nietzsche, Adorno, Husserl, Benjamin,
Morin, Zambrano, Kierkegaard, Collingwood, Berdjaev.
Fin dai suoi albori in Grecia, la filosofia, con il suo primato della teoria,
ma anche con la tensione ad un comprendere totalizzante, può essere considerata,
come sottolinea Husserl, il luogo di nascita dell’Europa spirituale (p. 18).
Ma con il tradimento di questa attitudine alla teoria, al domandare, e il
successivo prevalere dello spirito pratico e tecnico proprio delle scienze,
si aprirà la strada a un ben più grave tradimento, che porterà all’oblio della
stessa essenza spirituale dell’Europa, che da quel domandare traeva la sua
linfa. Da ciò l’assopirsi del pensiero, soprattutto con “l’educazione tecnica
delle masse che prende il sopravvento, soppiantando il vitale e libero svilupparsi
dell’immaginazione teoretica” (p. 22); cosa che ha reso le stesse masse preda
di qualsiasi dispotismo al quale non si riesce più a contrapporre alcun pensiero,
secondo la lezione di Horkheimer e Adorno, nonché di Maria Zambrano, che individua,
nel suo L’agonia dell’Europa, la sostanza di ciò che caratterizzava
la realtà del suo tempo nel “cieco servaggio alla più immediata ed apparente
realtà, l’incatenamento atroce ai fatti” (p. 23). Anche Iiritano, su questa
scia, si preoccupa del fatto che “l’incapacità di rispettare e di ascoltare
la pura essenza delle cose, il loro autentico darsi al di là di ogni umana
comprensione, fonda i presupposti teorico-pratici di una civiltà sempre meno
‘filosofica’ e sempre più ‘tecnologica’”, dominata da una volontà di potenza
che “ignora l’originario significato di una scienza che si fondava, al contrario,
sul rispetto dell’oggetto naturale come altro da sé” (p. 25). La meta dell’homo
tecnologicus diviene il puro dominio, coma sottolinea Iiritano sulla scorta
di Benjamin, il quale, in Strada a senso unico, affermava, già negli
anni venti, che il grande corteggiamento del cosmo messo in atto dalla tecnica
si stava trasformando in un bagno di sangue, a causa dell’avidità di profitti
della classe dominante (p. 26). Sarà proprio a partire dalla constatazione
di questo fallimento che Iiritano, facendo sua la lezione sia di Derrida che
di Morin, tenta la strada della ricerca di un nuovo spirito europeo (p. 31),
che riesca a considerare l’agonia, il combattimento che l’Europa sopporta
al centro stesso della sua essenza, come luogo propizio per una rinascita:
“Finis Europae. L’idea della fine, del limite che è compimento, costituisce,
insieme, l’arché e il tèlos d’Europa. Un principio che si manifesta
nel declinare, il cui sentimento più esatto di rivelazione è il disastro”
(p. 37). Certamente il disastro di una identità concepita come monade inospitale
e intransitiva, krisis paradossale di uno stare sospesi nel momento
decisivo, in cui devono essere segnati i fini e i confini dell’Europa a-venire,
che si separa, nel suo tentativo di riconoscersi, dal continente asiatico
di cui era parte. Come ribadisce Cacciari, citato da Iiritano, “questa stessa
decisione non può che costituire l’Europa come parte. Sta nella natura
dell’Europa sapersi come parte soltanto” (p. 51). E’ proprio in tale
sapersi come parte che la molteplicità e la differenza possono avere
luogo e dare luogo, in quanto l’altro diviene inseparabile da me nel
momento della definizione di una tale identità parziale, che comporta,
inevitabilmente, anche un sentimento di responsabilità nei confronti dell’altro,
dell’altra parte, responsabilità che non avrebbe potuto avere radici tanto
profonde senza il sentimento dell’aporia, poiché, con le parole di Derrida,
“non c’è responsabilità che non sia esperienza dell’impossibile” (p. 56).
Sembra, dunque, che, se dovessimo davvero cercare un resto in questa
Europa del disastro, potremmo trovarlo solo nella molteplicità di culture,
nella disarticolazione dei punti di vista, nell’incrocio delle religioni,
che ne costituiscono il limite e la ricchezza; risposta difficile e complessa
che deriva, forse, dall’imperioso bisogno di ospitalità che chiama l’Europa
ad una nuova apertura, in un processo di perenne divenire sulle orme della
novitas portata costantemente dall’altro. Movimento in cui la dialettica
non dà luogo a nessun terzo, secondo il percorso, poco conosciuto, che suggerisce
il filosofo inglese Collingwood, con la sua logica di “domanda e risposta”,
a cui Iiritano dedica il capitolo centrale del suo lavoro, rilevando la tangenza
del picture thinking di Collingwood con l’attenzione all’arte e il
pensare per immagini che caratterizza, ad esempio, lunghi brani dei Passages
benjaminiani.
Questa novitas dell’altro impedisce che il tramonto, destino che l’Europa
deve assumersi, conduca ad un definitivo sonno – immagine contrapposta alla
vigilanza messianica a cui costantemente richiama Benjamin – e preme, piuttosto,
affinché si tramuti nell’attenzione della veglia notturna. Veglia certo non
tranquilla, ma segnata, invece, dal travaglio, dalle doglie di parto che precedono
non una trionfale riappropriazione dell’identità, ma la fatica quotidiana
dell’apertura all’evento, imprevedibile, di una nuova consapevolezza della
coscienza europea. Il sobrio e argomentato entusiasmo di Iiritano – che Cacciari,
nell’introduzione al libro, caratterizza come “un’utopia credente” – invita
proprio a questa difficile vigilanza, utopia e compito di coloro che vogliono
ancora credere nell’infinita ricchezza custodita in un’ Europa a-venire.
L'autore
Massimo Iiritano, dottore di ricerca in Filosofia della religione, è stato
allievo di Sergio Quinzio. Attualmente è docente incaricato di Antropologia
delle religioni all’Università per Stranieri di Perugia e collabora con l’Istituto
Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha svolto attività didattica
e di ricerca presso diverse Università, italiane e straniere, tra le quali
Siena-Arezzo, Bologna, Venezia, Erlagen, Oxford, Cardiff. Suoi contributi
sono apparsi in riviste nazionali e internazionali. Tra le sue più recenti
pubblicazioni Apocalisse della verità (Napoli, 2003); la curatela di
B. Forte – S. Quinzio, Solitudine dell’uomo, solitudine di Dio (Brescia,
2003) e del volume collettaneo Il Messia povero. Nichilismo e salvezza
in Sergio Quinzio (Soveria Mannelli, 2004).
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze
Filosofiche
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