di Stefano Biolchini
A che serve essere versatili quando siamo tutti su un treno che
corre defilato sul suo binario unico verso la catastrofe?» L'interrogativo è di
Günther Anders.
Per il filosofo tedesco di Essere o non essere: diario di
Hiroshima e Nagasaki, dopo la bomba atomica la salvezza non sembra più una
realtà possibile. Uno scarto ancor più inquietante se, notizia di questi
giorni, l'attuale presidente della conferenza episcopale statunitense, William
Skylstadt, parla de "la bomba" equiparandola al terrorismo attuale,
perché «né l'una né l'altro fanno distinzione tra combattenti e non
combattenti, e così la minaccia di una guerra nucleare globale è forse oggi
diminuita, solo per essere sostituita dalla prospettiva del terrorismo
nucleare». E questo, tanto per restare alla cronaca, mentre dalla Corea
all'Iran la proliferazione nucleare non sembra conoscere tregua.
Eppure sono passati 61 anni. Sì sessantuno anni fa, alle ore 8, 14
del 6 agosto 1945 «Little Boy» veniva lasciata cadere sulla città di Hiroshima.
Quasi settantamila persone scomparvero all'istante, "assorbiti" per
sempre dal grande fungo; altri settantamila morirono per effetto delle
radiazioni e delle ustioni nei giorni seguenti. Tre giorni dopo «Ragazzino», un
altro nome vagamente brioso e familiare (dal gusto prettamente americano), «Fat
man», si sarebbe legato indissolubilmente alla catastrofe di Nagasaki: il
Ciccione al plutonio scatenò infatti un inferno da 39 mila morti disintegrati
all'istante, e 25 mila vittime nelle settimane a seguire.
«Dio mio che cosa abbiamo fatto?» si domandò uno dei piloti
dell'Enola Gay vedendo esplodere su Hiroshima la bomba appena sganciata dal
loro velivolo. Quesito a cui non avrebbero saputo rispondere con precisione
neppure i padri dell'ordigno, se lo stesso fisico ungherese Edward Teller, che
alla bomba lavorò sotto la direzione di Robert Oppenheimer, parlò di
«possibilità che lo scoppio della bomba atomica potesse innescare una reazione
a catena tale da incendiare l'intera atmosfera».
«Un tuono di luce abbagliante»: così descrivono la bomba gli
«hibahushas», gli irradiati scampati all'inferno. Per molti di loro dopo
l'atroce esperienza, un unicum nella storia dell'umanità, sarebbe poi arrivata
l'ora dell'onta terribile, del rifiuto da parte della società, financo dei
congiunti. In loro il Giappone rivive, come in una sorta di tableaux vivants,
gli orrori dell'esercito imperiale, la sconfitta, le paure ancestrali della
contaminazione e dell'ignoto. Tanto è bastato per far di loro, con le lo loro
ustioni e ferite, gli spettri di un passato scomodo e doloroso: da rimuovere,
nell'impossibilità di scordare. Perché basta evocare il solo nome di Hiroshima
per racchiudere e rappresentare l'atrocità della seconda guerra mondiale.
L'olocausto sta ad Hiroshima non meno che ad Auschwitz. Eppure la città è oggi
più che mai viva, con i suoi 1,2 milioni di abitanti. All'epoca del «Pikadon»,
come con un so che di ineluttabilmente familiare i suoi abitanti chiamano la grande
bomba, la città nipponica contava 350mila abitanti. E in un Giappone fiero di
aver voltato pagina e proiettato con convinzione verso il futuro, Hiroshima
resta indissolubilmente oltre che gelosamente legata all'immagine di città
della memoria e della testimonianza, così come certificano il visitatissimo
Parco della memoria e della pace e il «Duomo atomico», protetto dall'Unesco
come Patrimonio dell'Umanità.
«Nessuno di noi dimentica cosa accadde allora. Per noi il rigetto
della guerra è il presente, anche se tutto sembra in pace» dice un insegnante
di una scuola della città. I sopravvissuti stessi sono una testimonianza
indelebile, con le loro ferite da radiazioni impresse nella carne e nell'anima;
e sono ancora tanti, 80 mila nella sola metropoli. Ogni anno una media di 5.000
di loro muore, andandosi ad aggiungere alla lista delle vittime della bomba,
che arriveranno quest'anno a un totale di circa 242mila. «Riposate in pace,
perché‚ non ripeteremo mai più un simile errore» recita il monumento di granito
nero dedicato alle vittime bella bomba proprio nel Parco della memoria e della
pace. Nel 1952, all'inaugurazione del monumento, «l'errore» fu spiegato
dall'allora sindaco di Hiroshima come un riferimento alla scelta sciagurata del
militarismo nipponico nello scatenare la seconda guerra mondiale. Nella
coscienza collettiva di oggi risuona però anche come una condanna senza appello
delle armi atomiche.
«Metteremo fine al genere umano, oppure l'umanità rinuncerà alla
guerra?» scrivevano nel loro Manifesto Bertrand Russell ed Albert Einstein.
Dal 1945 non sono più state usate in guerra le bombe atomiche, ma
siamo ben lontani dal disarmo necessario suggerito da Russell e Einstein, con
oltre 36 mila testate nucleari ancora in giro per il mondo.
Visitando il Parco della Memoria e della Pace di Hiroshima c'è chi
dice che anche i rintocchi delle campane scintoiste acquistino una eco unica;
come unica dovrebbe restare l'esperienza di Hiroshima e Nagasaki.
«La possibilità dell'Apocalisse è opera nostra. Ma noi non
sappiamo quello che facciamo» scriveva il filosofo Anders. Ecco, la risposta al
pilota di Enola Gay è forse tutta qui. Nella speranza che l'orrore non sia
stato inutile.
Da http://www.ilsole24ore.com